Wayne Gretsky. Lo credevano normale, divenne il più grande!

Nello sport americano c’è The Big O e The Great One. Il primo Oscar Robertson, uno dei primi neri a giocare ad altissimo livello nella NBA. Che livello? Fate conto di circa 25 punti a partita, circa 8 rimbalzi e circa 10 assist. A tutt’ora è il giocatore con il maggior numero di triple doppie nella NBA.
Questo era Robertson.

E l’altro?
Ecco, se vi trovate a passeggiare intorno al Rexall Place di Edmonton e lo Staples Center di Los Angeles troverete anche lì un nome e un cognome.
Wayne Gretsky. E leggerete anche The Great One. The Great One è qualcosa come a dire: il vero grande, il vero numero Uno, quello per eccellenza.

E di Wayne Gretsky, Larry Bird una volta disse: “Secondo me è di gran lunga il numero 1 dello sport mondiale”. Già, perché Gretsky non giocava a basket, lui officiava da gran sacerdote nell’hockey sul ghiaccio.
Forse Larry vedeva qualcosa in comune con lui.
Come Larry, anche Wayne era un normodotato, non era superman, forse non era neanche talentuosissimo, ma il duro lavoro lo portò a primeggiare.
Ed era altruista; perché forse è questo il segreto: per essere grande devi imparare ad essere piccolo, a sacrificarti con gli altri.

Era un eccellente assistman Gretsky, come Larry del resto; sapeva segnare, ma anche passare, dare il giusto premio agli altri, anche se, a guardare le statistiche e il numero impressionante di record che ancora detiene si penserebbe a un cannibale in style Merckx.
E invece, sempre restando in paragone con il Basket, lui è un po’ una fusione fra la capacità realizzativa di Michael Jordan e la vena in assist di Stockton, altro bianco normodotato che è riuscito, con applicazione e classe a giganteggiare.
Giova ricordare che nell’Hockey su ghiaccio, i gol e gli assist sono contati insieme per quanto riguarda il computo delle marcature. Nel senso, nella classifica dei marcatori va inserita la somma dei gol e degli assist prodotti da un giocatore.

Il papà di Wayne amava l’hockey, ma in Canada, i Gretsky non ebbero vita semplice. Il papà di Walter, Anton, giunse dalle parti dell’Ontario, sponda Canada, scappando dalla Russia rivoluzionaria. Lui appoggiava lo zar, era un latifondista, aveva ettari di terre e braccianti che lavoravano per lui. In Canada, lui e la moglie Maria avevano un podere di cetrioli. Il piccolo Wayne veniva aggredito, i papà degli altri, dei canadesi, contavano i minuti di Wayne in campo per poi aggredire il coach, reo di aver riconosciuto il talento e la voglia di arrivare in un ragazzino.

Cambiarono anche città, andarono a Toronto, per via della pressione sul ragazzo, che fu fischiato in una partita molto importante nonostante avesse contribuito a farla vincere, quella partita.  Ma il coach aveva ragione, perché quel ragazzino al quale non avresti dato il classico soldo di cacio a dieci anni segnò 378 gol and 139 assist, attirando l’attenzione dei media nazionali; a tredici anni ruppe il muro dei mille gol. L’esordio nella National Hockey League (NHL) avvenne con gli Edmonton Oilers nel 1979, a diciotto anni, e già alla fine di quella stagione, dove mette a segno 137 fra gol e assist, viene nominato miglior giocatore del campionato. Lo sarà anche per le sette stagioni successive. Vince quattro volte la Stanley Cup (il campionato di lega) con gli Oilers prima di passare alle squadre statunitensi di Los Angeles, St. Louis e New York (sponda Rangers).

In vent’anni di carriera accumula ben sessantun record di lega. Sempre con il 99 sulle spalle, un numero che sarà presente in ogni stanzetta degli adolescenti degli anni ’80 e ’90. E si ritirò anche, forse lo aveva scelto come suo orizzonte, nel 1999.

Quando si trasferì in California ci furono scene da isteria collettiva in Canada e nello Stato dell’Orso. Era una Star.

Steve Jobs, il visionario di Apple, era un narratore eccezionale. E una volta non trovò di meglio che una frase di Gretsky per esprimere la sua vision tecnologica.

“Pattino dove sta andando il dischetto, non dove è stato.”

E questo, onestamente, nel buio della loro casa, mangiando cetrioli i profughi, Anton e Maria difficilmente avrebbe potuto immaginarlo.

Autore: Massimo Bencivenga

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